Sociale

La riforma Basaglia a Piacenza: “Quando tutto è diventato possibile”. Intervista a Giovanni Smerieri

Smerieri è stato un giovane medico che ha studiato e lavorato nel mondo di Basaglia, prima all'interno del manicomio cittadino e poi attraversando tutto il cambiamento seguito all'introduzione della riforma

manicomio di Piacenza (foto Cravedi)

“Conobbi una bella signora dagli occhi azzurri, si chiamava Maria. Non aveva più i denti, indossava un camice da ospedale e molto spesso era vincolata. Da circa vent’anni non usciva dalla struttura psichiatrica in cui era stata ricoverata. E non voleva neppure uscire. Eravamo nel 1980 e un giorno accadde una cosa, nel clima che si creò in quei mesi: si avvicinò a me che dirigevo da poco il reparto femminile e chiese: ‘non potrebbe portarmi a fare un giro in macchina?’ Le infermiere restarono esterrefatte. La portai con me, nonostante fossi stato messo in guardia, dissero infatti che poteva essere pericolosa. La accompagnai fino alla mia Dyane, infilai la chiave e partimmo verso Cremona. Quando tornammo all’ospedale mi domandò: ‘Ma adesso non mi porta a casa sua?’ Gli altri operatori ci guardarono rientrare nella sorpresa generale, io per primo non mi rendevo conto di cosa avevo fatto. Semplicemente era diventato possibile farlo. Tutto era possibile, anche ciò che fino ad allora le istituzioni presumevano non lo fosse. Scoprii che quella donna era stata ricoverata a seguito dell’innamoramento verso un medico, fu una relazione senza futuro e così arrivò in ospedale in uno stato psicotico e da quel momento non uscì più. A me invece capitò di accompagnarla fuori, successivamente capitò di nuovo di uscire, anche più spesso. Perché? Perché allora era diventato possibile”.

Giovanni Smerieri svela questo episodio quando l’intervista volge ormai al termine. Una lunga chiacchierata sul filo dei ricordi segnata da un coinvolgimento non solo professionale, si direbbe anche emotivo, con la consapevolezza di aver vissuto nel mezzo di una rivoluzione lunga, arrivata fino ai tempi nostri, quella che porta il nome di Franco Basaglia. Sono passati cento anni dalla sua nascita e della riforma che ha aperto le porte dei manicomi si è parlato in varie circostanze. Smerieri è stato un giovane medico che ha studiato e lavorato nel mondo di Basaglia, prima all’interno del manicomio cittadino e poi attraversando tutto il cambiamento seguito all’introduzione della riforma. Ha lavorato come primario del Centro di Salute Mentale di Fiorenzuola, sotto la guida di Stefano Mistura, e poi di nuovo a Piacenza come Direttore dell’Unità di Riabilitazione Psichiatrica dell’Ausl. Per questo abbiamo chiesto di raccontarci quella stagione per comprendere come la riforma ha trasformato il mondo della cura anche nel nostro territorio: lo faremo in due puntate, questa è la prima.

Giovanni Smerieri

 

OSPEDALE PSICHIATRICO – “La legge denominata Basaglia, di trasformazione degli ospedali, è datata 13 maggio 1978. A quel tempo a Piacenza c’era un ospedale psichiatrico con quasi seicento ospiti, – spiega – ed era collocato esattamente dove ora si trova il Centro di salute mentale. Al posto dell’attuale Polichirurgico c’era il reparto femminile, dove oggi sono gli infettivi c’era un altro dei reparti. Da quella data si sono concatenati una serie di eventi, tra l’inizio degli anni ’80, il decennio successivo fino agli anni duemila, con un’onda lunga che arriva fino ad oggi e ha trasformato radicalmente il mondo della cura. A Piacenza possiamo dire che siamo stati un’avanguardia del rinnovamento psichiatrico e i protagonisti di questo processo nascono – come sempre – dalle esperienze concrete”.

UN MONDO IDEALE E SPIETATO – “La rivoluzione di Basaglia, prima ancora della riforma contenuta nella legge, – fa notare Smerieri – nasce da qualcosa di molto ben definito, da un incontro, quello fra l’intelligenza clinica immersa in una profonda esperienza umana e culturale, e l’Altro. In questo caso l’Altro sono i pazienti affetti dalla malattia mentale. Fino agli anni ’70 in realtà i ‘pazienti’ non avevano diritti. Soggetti di niente, a loro venivano anche cancellati i diritti civili, erano solo registrati nel casellario giudiziario. Non potevano votare ad esempio. Ed erano inseriti nel grande contesto dell’ospedale psichiatrico, partendo da un presupposto fondamentale, che l’isolamento dalla vita reale fosse il modello perfetto per la cura e la terapia. Visto che la malattia mentale in senso lato si permeava di tante inquietudini e di tante minacce dentro la vita reale, isolare dentro un mondo ideale, che poi in realtà era un mondo spietato, un mondo chiuso e separato, era la soluzione. Dentro quell’universo erano compresi tutti i servizi, esattamente come nelle carceri. Nel manicomio c’era il medico, la parrucchiera, il barbiere, l’odontoiatra, il sacerdote e la chiesa. Era una piccola città ideale dove si svolgeva una vita, in alcune situazioni completamente priva di pietà. Io stesso da giovane medico vi entrai nel ’79 ed ebbi la responsabilità di un reparto, quello femminile, per qualche mese. A quel tempo a Piacenza, nonostante i miglioramenti, le quaranta donne che vivevano lì non avevano abiti personali e non avevano effetti personali”.

L’INTERA UMANITÀ SOFFERENTE – Con gli occhi dell’oggi, non è facile comprendere il mondo di allora. Il mondo di prima della rivoluzione di Basaglia come trattava gli uomini e le donne che non fossero riconducibili al discutibile e precario parametro della normalità? “In quegli anni dentro al mondo dell’ospedale psichiatrico – risponde Smerieri – c’era una coabitazione di tante problematiche diverse, c’erano persone con gravi malattie come la schizofrenia, disturbi bipolari, gravi depressioni, i primi grandi disturbi della personalità, insieme alle cerebropatie, persone che nascevano con disturbi congeniti, o sviluppati nella fase infantile o adolescenziale, che rimanevano lì a lungo, talvolta per tutta la vita. C’era una mescolanza indistinta fra cerebropatie, malattie acquisite dalla nascita, o ereditarie, insieme alle malattie tradizionali della psichiatria. E poi c’erano persone affette da disturbi neurologici gravi. Il tutto accompagnato da povertà estreme che causavano in quel tempo altre malattie di tipo metabolico, come intossicazioni, etilismo cronico. Nel manicomio si poteva trovare l’intera umanità che soffriva”.

manicomio di Piacenza (foto Cravedi)

 

IL “RESIDUO” DI BORGONOVO – Il racconto di Smerieri prosegue sul filo di un altro ricordo dai contorni precisi, del mondo prima di Basaglia. “Nel 1975 andai a vedere un ‘residuo’ manicomiale all’Andreoli di Borgonovo, veniva chiamato residuo perchè ci portavano i casi cronici più gravi. Era il posto per gli ultimi degli ultimi. Erano cinquanta maschi e cinquanta femmine e vivevano in due grandi stanze, uno stanzone era quello dei letti e l’altro del cammino. Lo spazio rettangolare riservato al cammino era lungo circa 20 o 30 metri con le panche inchiodate alle pareti. Quando arrivai era il momento della doccia, che si svolgeva in questo modo: erano tutti nudi messi in fila e i due infermieri impugnavano canne di gomma per lavarli. Era il 1975. Io restai colpito e chi mi accompagnava cercò di spiegare la situazione con queste parole: ‘Capisco la sua emozione ma guardi sono solo dei vegetali'”.

LA PROTESTA PER LA CARTA IGIENICA – “Ci furono anche proteste in quegli anni, – rammenta Smerieri – a metà degli anni Settanta gli infermieri insorsero perché non avevano la carta igienica nei reparti psichiatrici, era stata bandita per ragioni di sicurezza. D’altronde l’intero sistema era fondato unicamente sulla sicurezza, non sulla cura. Quando entrai in quelle strutture trovai che i gabinetti non avevano le porte, perché non si poteva avere l’intimità. Non c’era alcuna possibilità di tenere oggetti personali, tutto era spersonalizzato. La terapia era prevalentemente farmacologica, il vincolo era costante e si legavano le persone ovunque”.

“Ero un giovane medico quando mi spostai da neurologia nell’ospedale psichiatrico – ricorda – e trovai una situazione ancora non toccata dalla riforma. L’ospedale psichiatrico allora non rientrava neppure nel sistema sanitario, era separato anche dal punto di vista amministrativo, dipendeva infatti dall’amministrazione provinciale: anche questo fatto era significativo, il manicomio apparteneva cioè alla dimensione della disgrazia e della povertà, non a quella della cura. Nonostante questo quadro, a partire dalla metà degli anni ’70 si animarono i primi movimenti di rinnovamento nella nostra provincia, prima della riforma del ’78. Allora arrivarono infatti da fuori Piacenza alcuni giovani dottori come Stefano Mistura, che sarebbero diventati i protagonisti del nuovo corso e che avevano già compiuto esperienze importanti, vivendo nella pratica le prime innovazioni”.

A COLORNO E PIERLUIGI FILIPPI – “Piacenza fu contagiata concretamente dall’esperienza di Basaglia – sottolinea Smerieri – anche per la contiguità geografica con Colorno, dove Basaglia restò come direttore dell’ospedale psichiatrico locale, dal ’69 al ’71. Io stesso ho dato un esame universitario con Basaglia, quello complementare di igiene mentale. L’esperienza di Colorno coinvolse molti giovani studenti e giovani medici, anche qualche piacentino. Ma ci fu una persona in particolare che assunse un ruolo chiave, Pierluigi Filippi. Più volte assessore e amministratore pubblico, Filippi tra gli anni Sessanta e Settanta era responsabile dell’ufficio personale della struttura di Colorno proprio quando arrivò Basaglia. Filippi si rese conto del valore del lavoro di Basaglia e ne restò affascinato. Un incontro che tuttavia avvenne in circostanze del tutto speciali”.

L’EVIDENZA DEI FATTI – “A Fiorenzuola c’era un ragazzo, – racconta Smerieri – figlio di una famiglia importante, che improvvisamente accusò una crisi schizofrenica grave. Accadde che Filippi, pure lui di Fiorenzuola, si prese a cuore la sorte di quel ragazzo e lo portò con sé a Colorno per farlo curare da Basaglia e dal suo gruppo di medici. Successe ogni giorno per un certo periodo, lo prendeva al mattino e poi lo riaccompagnava a casa alla sera. Tutto questo per il ragazzo comportò un significativo miglioramento”. “Questa vicenda, molto concreta – rimarca – è quella che indusse più tardi Filippi, quando diventò amministratore pubblico della sanità provinciale, a portare l’esperienza di Basaglia anche sul nostro territorio. Non fu una spinta teorica quanto l’evidenza di questo viaggio con un ragazzo di Fiorenzuola che si era smarrito, che gli fece conoscere le nuove idee che Basaglia stava diffondendo e mettendo in pratica. Filippi mi raccontò tutta la vicenda quando lo conobbi qualche anno dopo, in occasione della ricerca epidemiologica sulla centrale nucleare di Caorso che svolsi dal punto di vista medico insieme a Fabio Fornari”.

L’INIZIO DELLA STORIA – “Questo è stato l’inizio della storia, perché a Piacenza il movimento di rinnovamento – fa notare – fu favorito anche dalla politica, da persone come Filippi, e poi da suoi colleghi come Nanda Montanari, che lo conobbero attraverso un’esperienza profonda. E’ tutto molto lontano dalla politica di oggi, di qualunque parte stiamo parlando. Quella era invece una politica che nasceva dal vissuto umano, così come il clima di quel tempo era molto diverso, assai più fecondo. In tanti avevamo vissuto l’esperienza del possibile, c’era stata l’immedesimazione con la sofferenza, ma anche con la possibilità di uscirne, con una soluzione, lo avevamo toccato con mano”.

Giovanni Smerieri

 

IL TESTAMENTO DI A. 

Io sottoscritta trovandomi nelle mie piene facoltà mentali, desidero deporre il mio testamento per ciò che riguarda il mio funerale. Il mio corpo dovrà essere deposto in un sacco di plastica al posto della bara, per carro funebre voglio una carriola da muratori. Il sacco contenente il mio corpo dovrà essere sepolto nella terra. Sopra alla mia fossa voglio una grande croce meglio di ferro perchè almeno non marcisce. Al mio funerale voglio un corteo di puttane che portino al guinzaglio un corteo di cani, anche randagi e soprattutto bastardini. Tutto questo dovrà essere accompagnato da un’allegra orchestra al suono di mazurka. Se il parroco vorrà benedire tutto questo, lo ringrazio. Se non lo farà chiederò la benedizione di mio padre celeste. Tengo a precisare che il mio desiderio è di essere sepolta nel cimitero di Piacenza, città dove è nato mio figlio.

“E’ il testamento di A., una donna rinchiusa per oltre 15 anni in manicomio e separata del proprio figlio, lo ha voluto scrivere prima di morire, credo che siano parole molto importanti e rivelatrici”. Il dottor Giovanni Smerieri le legge da alcuni fogli fotocopiati di un manoscritto. “Parole che sono la dimostrazione – aggiunge – di come si possa vivere gran parte della propria esistenza in una dimensione tragica come quella della psicosi, all’interno di un mondo che di fatto ti ha abbandonato completamente. Un mondo perduto”.

Dopo la prima parte dedicata al mondo parallelo e “spietato” del manicomio, con Smerieri, in passato responsabile del Centro di salute mentale di Fiorenzuola e Direttore dell’Unità di Riabilitazione Psichiatrica dell’Ausl, affrontiamo la sfida che sia aprì con la riforma di Franco Basaglia del ’78: dimostrare che un altro modello di cura era possibile. Alla fine degli anni ’70 le cose cominciarono a mutare e anche il mondo circostante, la città se ne accorse. “A quel tempo arrivarono molte persone motivate – ricorda Smerieri – alla nostra realtà psichiatrica per darci il loro aiuto. Ci furono i giocatori di rugby, ma anche artisti e pittori. Tutto il clan dei pittori piacentini come Armodio, Foppiani, Bertè, dipinsero un grande murales, un treno sul muro della palazzina del reparto femminile dell’ospedale psichiatrico, che venne battezzato il ‘treno della libertà’ coi ritratti di diversi personaggi della storia del pensiero”.

LA RAGAZZA “SLEGATA” DOPO DUE ANNI – “C’è un episodio significativo nel 1980 legato a un giocatore di rugby, – continua – uno dei tanti volontari che furono tra i protagonisti di quella liberazione. Ricordo che si prese cura di una ragazza nel padiglione femminile, che era vincolata da due anni, attaccata al letto. Veniva chiamata la “lupa”. Allora si decise insieme ad altri di provare a slegarla, si fecero diversi tentativi per giorni e giorni. Era affetta da una celebropatia ed aveva avuto in passato reazioni violente. In conclusione, nel giro di due o tre settimane il volontario riuscì a condurla a mangiare con tutti gli altri, dopo due anni di vincolo. Le infermiere anche in quel caso restarono incredule. Quella fu una delle tante evidenze che riscontrammo in quel periodo. Era la dimostrazione che non era necessario legare e vincolare le persone. Legare mani e piedi era la soluzione in mancanza di alternative terapeutiche, e soprattutto di uno spirito curante”.

ASCOLTO COME POSIZIONE SCIENTIFICA – “Per questo il sentimento umano nei confronti del malato – fa notare – deve essere ben pensato, secondo la modalità profonda dell’ascolto, altrimenti anche l’amore può uccidere uno psicotico. L’ascolto allora non è solo una posizione etica e culturale, ma anche profondamente scientifica, perchè attraverso l’ascolto, attraverso l’immedesimazione, che significa mettere l’altro con le sue paure dentro di sè, è possibile restituire qualcosa. Proprio come fecero i grandi scienziati che si iniettarono i vaccini che avevano scoperto per provarli prima su di sè. Nel dialogo c’è la capacità di mettersi dentro l’altro. Questa è stata la grande apertura di Basaglia, la dimostrazione che un intervento forte e articolato, con più risorse di cura, nella fase acuta della malattia mentale, cambia radicalmente la prospettiva di guarigione. I ricoveri sono un’eccezione, le terapie una necessità a bassi dosaggi e dopo un po’ possono interrompersi, e all’inizio la cura deve essere un concorso di tante persone, di tante figure professionali diverse”.

manicomio di Piacenza (foto Cravedi)

 

METTERSI IN ASCOLTO DEI MALATI – “Basaglia ebbe il coraggio e l’intelligenza umana – le parole di Smerieri si fanno più meditate – oltre che quella scientifica, di mettersi in ascolto. Si piazzò lì, insieme ad altri medici, e rimase in ascolto per giorni e giorni. Quando le persone venivano slegate non restava in ufficio di direzione dell’ospedale ad attendere gli sviluppi, al contrario lui era lì, una presenza costante, giorni dopo giorni. Lo imparai dal dottor Stefano Mistura, che veniva da quell’esperienza, noi medici stavamo coi pazienti ore dopo ore e se alle dieci di sera chiamavano, si andava. L’ascolto fino in fondo e il rispetto dell’altro erano elementi fondamentali. Il nostro presupposto era questo: al di là della condizione in cui la psicopatologia metteva quel paziente, non solo in senso morale, ma anche in senso concreto, la persona esisteva ancora e si batteva contro la malattia. Ascoltare significa tentare di entrare nel registro mentale dell’altro, per capire come viva la propria condizione. Dentro quel mondo l’altro può mettersi in contatto con noi. Soltanto nell’ascolto profondo e nel mettersi nella sfera dell’altro diventa possibile conoscere il modo per far tornare la fiducia nell’umano, in altri termini è la fiducia nella relazione terapeutica da cui nasce la possibilità della cura”.

COME FREUD – “Quello che ha fatto Basaglia è stato straordinario – sottolinea Smerieri – ed è per certi versi paragonabile al percorso di Freud a fine dell’Ottocento. Anche Freud, cacciato dall’università perchè ebreo, iniziò ad ascoltare le persone che avevano disturbi psichici per cinque giorni alla settimana. Non c’era allora altro medico che sarebbe rimasto ad ascoltare per così tanto tempo le narrazioni dei propri pazienti. Lo stare lì, lo stare dentro la narrazione dei pazienti ha significato avvicinarsi come mai prima alla conoscenza della sofferenza umana. E fu così con Basaglia, che attraverso gli incontri e la relazione umana e terapeutica si aprì lo scenario del possibile. Possibile nonostante la cronicità, nonostante il deficit cognitivo”.

UNA RIFORMA PER GRADI – “La riforma di Basaglia si realizzò per gradi, – spiega Smerieri – e negli anni ’80 anche a Piacenza la grande sfida ebbe il nome di Centro di Salute Mentale. La sfida era dimostrare nella pratica che il modello di cura dell’ospedale psichiatrico era profondamente sbagliato. La cura aveva bisogno invece di spazi che non erano quelli dell’isolamento, nei quali le relazioni umane erano ridotte al minimo. Era necessario fare il contrario, perchè anche nelle situazioni che esprimono la paura dell’umano, se ci si avvicina in un contesto ambientale favorevole, è possibile instaurare una relazione, che è il punto di partenza della cura”.

I MATTI “LIBERI”: COSA SUCCEDERA’? “La domanda che ricorreva allora – ragiona Smerieri – era la seguente, che cosa accade in una comunità di circa 80mila persone (come il bacino di competenza sanitaria della Val D’Arda ndr) se i matti sono liberi?” I medici di famiglia come potranno fare per occuparsi di persone delle quali si era sempre occupata soltanto la polizia? Il problema era far sì che l’ipotesi rivoluzionaria di Basaglia potesse essere applicata nella realtà. Lo sforzo degli anni successivi, per tutti gli anni ’80 e ’90 e fino ai duemila è stato questo: come è possibile accompagnare le persone colpite dalle crisi psicotiche, quelle che non desiderano essere curate, che sono estranee alla terapia? E’ possibile che finalmente siano i sanitari i veri protagonisti di questo percorso? La risposta che ci è arrivata dalla realtà delle cose è sì. E’ possibile. Nel corso dei 30 anni successivi alla riforma, tutti i pazienti afferenti alla comunità della Val d’Arda dove ho operato furono accolti e accompagnati da infermieri, medici, educatori, assistenti sociali e psicologi. Nelle situazioni più delicate anche i carabinieri rientravano nel gruppo terapeutico, con un ruolo di supporto. Nel nuovo clima generale anche le forze dell’ordine hanno subito una trasformazione, acquisendo un nuova prospettiva”.

SUPERARE L’OSPEDALE – “L’ospedalizzazione, tranne che per i casi acuti, fu superata, – racconta Smerieri – le degenze diventarono relativamente brevi e le terapie vennero vissute dentro spazi nuovi che via via si inventarono, come il centro diurno. Poi arrivano a fine anni ’80 le prime piccole comunità terapeutiche aperte, da quindici posti circa, fino all’esperienza del condominio solidale. Un modello che aveva avuto una significativa anticipazione negli anni ’70 coi primi appartamenti messi a disposizione dalla Provincia con piccoli gruppi di pazienti con assistenti di base. Furono progetti positivi e per questo poi si allargarono progressivamente. Nel condominio solidale che venne creato una ventina di anni fa in via Scalabrini, c’erano monolocali con persone che pagavano un piccolo affitto e si autogestivano, ma allo stesso tempo c’erano minori o altre persone senza domicilio, con un assistente sociale, la mensa, più altri servizi. E’ stata la prima struttura di questo tipo e da lì sono nate altre realtà simili, dentro questo spirito è nata ad esempio la comunità e l’attività lavorativa de ‘I Perinelli’ con l’azienda agricola e vitivinicola, e sulla scia dello spirito basagliano perseguito fino alla fine”.

manicomio di Piacenza (foto Cravedi)

 

BIOLOGIA E SOCIETA’ – “Una delle acquisizioni di quegli anni – precisa Smerieri – è che l’ipotesi della malattia mentale e della sua natura abbia che vedere sia con una componente biologica, che di natura ambientale. Riguarda pertanto le relazioni familiari, ma anche quelle più intime come l’esperienza dell’amore. L’amore in particolare costituisce la sfida esistenziale più delicata da cui nasce la sofferenza mentale nelle sue diverse forme, perchè nella sfida del rapporto amoroso mettiamo in campo la nostra unicità, i nostri desideri profondamente umani, ma anche la nostra dimensione animale. Il cervello infatti, quando ci innamoriamo, attiva un programma biologico, con regole che ci spingono verso l’altro. Se non siamo ben centrati su di noi, con un sè forte e coerente, si generano i grandi disturbi della mente, le grandi crisi depressive o dissociative, le crisi comportamentali e di personalità”.

L’ISTITUZIONE PUO’ DISTRUGGERE L’UMANO – Al termine dell’intervista si impone in modo ineludibile l’interrogativo finale, come è stato possibile che si producesse quel mondo “prima” di Basaglia, fondato sulla segregazione e sulla negazione dell’umanità? “Dobbiamo renderci conto che l’istituzione – conclude Smerieri – se non viene costantemente animata dallo spirito umano, ci distrugge. Distrugge anche persone che hanno voglia di stare bene dentro le istituzioni. Tanti studi ci dicono che le istituzioni hanno un meccanismo spietato che trascende anche le persone, perchè costringe a un ordine comportamentale che fa sparire l’individuo. Questo accade in tutte le istituzioni, non dobbiamo dimenticarlo”.

 

leggi anche
Bellocchio e Zoja ricordano Franco Basaglia
Sociale
“Basaglia rivoluzionario, l’apertura dei manicomi riparazione all’ingiustizia sociale”