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Marta, “pendolare” tra l’Italia e il Centrafrica “Non solo aiuti, ma anche cultura ed educazione”

A guidare i redattori di Universi, Alex, Micaela, Chiara, Hassan, William e Roberta - coordinati da Mauro e Davide - alla scoperta di una profonda e impegnativa esperienza di cooperazione internazionale è stata Marta Moretti

Marta Moretti Universi

Cosa significa “La joie de vivre” in uno degli stati più poveri del nostro pianeta? Eppure si chiama così il centro costruito a Bangui dall’Ong “Amici per il Centrafrica”, che ha la sua base di partenza a Como e opera da diversi anni nella nazione collocata proprio in mezzo al grande continente africano. A guidare i redattori di Universi, Alex, Micaela, Chiara, Hassan, William e Roberta – coordinati da Mauro e Davide – alla scoperta di una profonda e impegnativa esperienza di cooperazione internazionale è stata Marta Moretti, responsabile dei progetti educativi dell’Ong. Marta, pedagogista e per alcuni anni collega del coordinatore della nostra redazione Fabio Franceschetti, ha concesso una lunga intervista per raccontare la sua esperienza e il suo ormai inguaribile “mal d’Africa”. (foto concesse da Marta Moretti)

Puoi presentarti brevemente e spiegarci di cosa si occupa la tua associazione?
Mi chiamo Marta Moretti e sono una pedagogista. Ho lavorato per tanti anni all’Università di Zurigo in progetti per l’inclusione scolastica e ne curo uno anche sui minori stranieri non accompagnati. Due anni fa sono andata per la prima volta nella Repubblica Centrafricana per fare un’esperienza di volontariato internazionale con un’organizzazione non governativa (Ong). Il caso ha voluto che abbia conosciuto “Amici per il Centrafrica” poiché dovevamo portare un libro ad un’infermiera che lavora nell’ospedale di quell’organizzazione.

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L’intervista di Marta a Universi

Come hai iniziato a lavorare con questa associazione non governativa?
La capitale Bangui purtroppo non è una città molto accessibile. La probabilità di incontrare in quel contesto il presidente Paolo e la sua vice Cristina di “Amici per il Centrafrica”, entrambi italiani e la cui sede è in Italia, era molto bassa. Invece ci siamo conosciuti e ho percepito subito la loro energia positiva e mi sono sentita un po’ a casa, anche se ero dall’altra parte del mondo in uno dei paesi più poveri in assoluto del nostro pianeta. “Amici per il Centrafrica” è nata nel 2001 perché una signora originaria di Como, Carla Maria Pagani, è andata a trovare la sorella missionaria che operava per l’appunto nella Repubblica Centrafricana. Si è recata in quel paese e, come succede spesso nei contesti più estremi, il posto lo ami o non vuoi tornarci più: da lì ha deciso di investire una parte del suo patrimonio economico nella costruzione di un centro che si chiama “La joie de vivre”. Dopo 20 anni, questo centro, che noi viviamo come una piccola cittadina, ha un ospedale pediatrico, che è il secondo ospedale del paese. Pensate che in tutta la Repubblica Centrafricana vi sono solo due ospedali pediatrici: uno è gestito dal Cuamm, un’associazione italiana di medici per l’Africa, e poi c’è il nostro in cui accogliamo codici verdi e codici gialli. All’interno di questo ospedale abbiamo un centro per dentisti, poiché nella Repubblica Centrafricana vi sono numerose malattie legate ai denti che possono purtroppo portare anche alla morte, in particolare alcune infezioni che “mangiano” parti del viso. Abbiamo anche un centro ottico, un centro analisi e diversi servizi legati all’area pediatrica. In ospedale opera la nostra responsabile, Federica, infermiera italiana. Il responsabile paese dell’Ong si chiama invece Jeff, un ragazzo togolese che ha studiato in Italia. Lui coordina e gestisce tutto il lavoro, è una risorsa indispensabile. Ci tengo però a dire che tutti i nostri medici sono centrafricani o locali. Infatti se riusciamo a lavorare con la popolazione di quel paese, allora sì che si genera lo sviluppo anziché la dipendenza, e questo è sempre stato il nostro approccio.

Marta Moretti Universi

E sul tema dell’educazione, cosa fa “Amici per il Centrafrica”?
Abbiamo anche molte scuole, dall’infanzia alla secondaria con 7mila bambini e bambine. Le classi sono generalmente composte da 80-100 alunni, ciascuna con un’insegnante. Abbiamo anche un istituto di formazione per insegnanti; come potete immaginare, un insegnante formato ha un impatto grandissimo sull’educazione. Abbiamo inoltre un centro di moda e prototipia, portato avanti da Berthille, una ragazza burundese che ha studiato all’Istituto Secoli Milano dove viene insegnato a fare dei vestiti in modo che questa diventi una professione. Ma non siamo insediati soltanto nella capitale Bangui, uno degli aspetti che mi piace di più della nostra attività è che abbiamo una scuola nella foresta. Come sapete, la Repubblica Centrafricana è proprio nel mezzo dell’Africa, è uno stato senza sbocchi sul mare, circondata da altri stati altrettanto poveri come Sudan, Sud Sudan, Ciad, Repubblica del Congo, Repubblica Democratica del Congo, Camerun. Nella zona della foresta pluviale meravigliosa, la foresta della Lobaye, a Ngouma è stata fondata una scuola di e lavoriamo con la popolazione di pigmei Aka, e abbiamo anche un dispensario. Ci vogliono circa 8-10 ore di jeep per raggiungerla considerando che non ci sono strade asfaltate, dobbiamo attraversare un fiume e coprire una distanza di circa 300 km. A Yaloké, in un’altra zona del paese, abbiamo anche una scuola di coesione sociale tra cristiani e una minoranza etnica, i Peuls.

Come operate in un paese in condizioni politiche ed ambientali indubbiamente complesse?
Come Ong abbiamo la mission di lavorare a diretto contatto con la popolazione, incontrando da vicino aspetti della vita di quei luoghi: soprattutto la malnutrizione diffusa e tanti bambini con le pance gonfie. Una volta, durante un viaggio da Bangui alla zona del paese in cui abbiamo costruito un centro per bambini con disabilità motoria, scortati dalle Nazioni Unite, nel mezzo di una strada abbiamo visto un ragazzino in estrema difficoltà. Avrà avuto 12-14 anni, molto malnutrito, con le gambe più magre delle braccia. Inoltre suo padre aveva una forma tumorale particolare, deformante, e non avrebbe avuto molto tempo da vivere: lo abbiamo raccolto e portato nel presidio ospedaliero più vicino, lo abbiamo assistito con del cibo. Al ritorno dal nostro centro abbiamo purtroppo saputo che non ce l’aveva fatta.

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Cosa ti spinge ad andare in missione? Ci racconti il primo viaggio in Centrafrica?
La prima volta che sono andata in Africa è stata a gennaio di due anni fa. E quando sono tornata in Italia, come è accaduto a tante persone che hanno compiuto esperienze simili, ho avvertito una forte malinconia: quella terra rossa della strada ti entra dentro e non va più via. Ho pensato che però da sola la malinconia non basta, ci vuole una motivazione intrinseca molto forte. Così mi sono concessa sei mesi di tempo per capire se volevo davvero lavorare con “Amici per il Centrafrica” e oggi sono la responsabile dei progetti di educazione e formazione, ed è una bella responsabilità. Ho visto infatti che questa motivazione continuava ad essere molto forte. Sicuramente mi ha spinto il fatto di lavorare per una Ong con un profilo etico: il 92 % dei fondi che riceviamo li diamo alla popolazione, non sono trattenuti; abbiamo inoltre un responsabile bravissimo con grandi capacità di gestire e coordinare il lavoro dell’Ong. In questa professione c’è naturalmente anche una parte personale che riguarda la sfera della scoperta antropologica e culturale e io sono un’amante dei viaggi! C’è infine una sorta di attivazione emotiva che si ha quando si va in quei luoghi, delle specie di “click” che scattano. Ed è quello che è successo a me, così come alle altre persone che ogni giorno fanno andare avanti “Amici per il Centrafrica”. L’approccio di generare sviluppo insieme alla popolazione di quelle aree è un fattore molto importante, è sicuramente faticoso ma bellissimo. Ho iniziato a collaborare in maniera più costante a partire dal maggio successivo, quando sono tornata in Centrafrica. Poi sono andata di nuovo ad ottobre, e riscenderò a fine di questo gennaio. Tendenzialmente alterno due mesi in Italia e un mese e mezzo in Africa: il focus del mio lavoro è portare avanti un progetto di educazione e formazione strategico, perché senza educazione non c’è salute e nemmeno sviluppo. Come faccio ad arrivarci? Non esiste un permesso turistico, il Centrafrica è un paese in cui si va solo per motivi lavorativi e umanitari. Bisogna avere un visto particolare. Poi ci sono diverse compagnie aeree, come Air France o Air Etiopia, che collegano Bangui col resto del mondo: dall’Italia ci vuole un giorno e mezzo circa di viaggio. L’aeroporto della capitale è forse il posto in cui mi sento meno sicura: bisogna fare numerosi controlli, ti aprono le valigie, bisogna tendenzialmente contrattare perché non trattengano alcuni dei tuoi beni, nello specifico gli alimentari che portiamo per la popolazione. Quando andiamo aggiungiamo alcune valigie in più, in cui mettiamo ad esempio macchinari, farmaci, generi alimentari; tutto quello che portiamo è sempre molto oculato e pensato, soprattutto poiché in quelle aree vi è un grosso problema di smaltimento dei rifiuti.

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Quanto personale stanziale avete in quell’area?
Abbiamo una persona straordinaria come Jeff che è responsabile gestionale dell’Ong, Federica che è infermiera e responsabile sanitaria, abbiamo 40 medici dell’ospedale, una decina di insegnanti della scuola di formazione per docenti; poi c’è Berthille, la ragazza burundese che gestisce la scuola di moda, nelle altre strutture dislocate nel paese ci sono 8-12 insegnanti.

Com’è la vita in quel paese per chi ha una disabilità fisica?
In primo luogo è assai difficile fare una mappatura dei ragazzi e degli adulti con disabilità, in molti villaggi è quasi impossibile arrivare; quindi i dati che ci sono non sono rappresentativi di tutto. La disabilità motoria viene causata talvolta dagli incidenti nelle strade, anche perché le motorette sono il mezzo di trasporto più diffuso. Nei villaggi non ci sono carrozzine, non sarebbero nemmeno agevole utilizzarle. Anche nella capitale, Bangui, le strade non sono accessibili.

Come riuscite a sostenere economicamente i progetti, i viaggi, il personale?
Nell’area medica abbiamo alcuni progetti con la cooperazione internazionale, grazie ai quali riusciamo portare avanti l’attività degli ospedali. Sempre all’interno di questi progetti abbiamo una collaborazione e partnership con l’ospedale pediatrico gestito dal Cuamm. Ci tengo a dire che il presidente di “Amici per il Centrafrica” Pierpaolo Grisetti e la vice Cristina Ceresoli si pagano da sé i viaggi, visto che hanno un’altra professione e tutte le ore che fanno per l’associazione sono di investimento personale, il che non è molto comune. Sull’attività educativa stiamo raccogliendo fondi, candidandoci a bandi anche internazionali. Non è facile in questo momento, perché molte risorse si stanno indirizzando verso i paesi in guerra come l’Ucraina. Abbiamo inoltre tanti volontari: ad esempio Giuliano, un signore in pensione di settant’anni che tre mesi all’anno va lì e svolge tantissimi lavori di manutenzione. Abbiamo un grande radicamento sul territorio perché operiamo ogni giorno con le persone, non stiamo dietro alla scrivania. Penso al rapporto con una figura importante, che è il cardinale della Repubblica Centrafricana, è stato “messo” da Papa Francesco ed è un pastore di trincea, che va a parlare con i ribelli, che ha ospitato l’Imam durante la guerra, ha rischiato la vita tante volte. Abbiamo connessioni con le autorità locali, il governo, e Ong italiane e internazionali.

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Come la situazione religiosa in quella zona?
È un paese a prevalenza cristiana, presenta una minoranza musulmana; all’interno dei nostri progetti ci tengo a dire che ce n’è uno di coesione sociale tra musulmani e cristiani, e abbiamo una scuola mista con bambini una popolazione musulmana prima nomade ma ora stanziale.

Come si concilia questo lavoro con la tua vita personale?
È sicuramente complesso, ci si rende conto che il lavoro diventa parte della tua identità: sono collegata tutti i giorni con Bangui, il mio cuore e la mia testa sono tutti i giorni là, anche se il mio corpo ora è qui in Italia. A volte mi sembra di portare un valore aggiunto, mentre altre volte capita di sentirmi un’estranea: ogni volta che rientro da Bangui nella mia città Cremona o a Zurigo, tante cose banali si rivelano strane, come tornare a lavarsi regolarmente sotto la doccia.

Cosa si mangia in quella parte dell’Africa equatoriale?
Partiamo dal presupposto che in cucina sono un disastro. Quando scendiamo dall’Italia portiamo magari la nostra pasta e alimenti simili, che nei supermercati locali si possono trovare ma con i prezzi che sono andati lievitando. Mangiamo molta frutta e verdura, fortunatamente abbiamo il volontario Giuliano che cucina. A mia insaputa una volta ho mangiato una specie di topo gigante, pensavo fosse carne comune, invece ho scoperto la vera natura quando mi hanno mostrato la testa. Devo dire che non era tanto buono. Ho rischiato di mangiare anche la vipera del Gabon, uno dei serpenti più velenosi.

Come sono le persone, i centrafricani?
Sono persone abituate a vivere in condizioni di difficoltà, costretti ad esperienze impegnative, talvolta alla fame, all’instabilità politica del paese, per questo sono persone molto resilienti. Sanno superare le difficoltà e usarle per rialzarsi.

Ci sono molti luoghi comuni sull’Africa che andrebbero superati, che ne pensi?
Vorrei infatti concludere il nostro incontro con qualcosa di positivo: è giusto riportare la tragicità di quel paese e non possiamo nasconderla. Ci tengo però davvero che si mostri anche tutta una parte buona del Centrafrica, di felicità autentica e relazioni, e una forte resilienza. Penso che purtroppo senza lavorare sulla cultura e l’educazione, molti paesi tendano a generare gravi dinamiche di dipendenza in quel continente. Noi abbiamo un progetto sanitario anche nelle carceri, dove ci si può imbattere in persone imprigionate per crimini di guerra o anche in chi ha semplicemente rubato una mela, oppure si trova in cella soltanto perché qualcuno lo ha accusato di un crimine senza prove, così come ci sono persone in attesa di processo da anni. I posti dovrebbero essere 400 e invece i detenuti sono 1800. Nell’ottica del nostro progetto di educazione, sappiamo che dentro il carcere di Bangui ci sono 18 minori. Noi ci siamo entrati e quando siamo arrivati nell’area dei minori, abbiamo chiesto loro di cosa avessero bisogno: ci hanno chiesto dei libri per studiare. Questo ci ha dato un segno di speranza importante ed una grande forza. Adesso stiamo facendo in modo che finiscano la scuola superiore a distanza. È stato un grande messaggio di forza!