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“La Pellegrina non è un luogo di sofferenza, oggi c’è ancora disinformazione sull’Aids”

La Casa "Don Venturini" da trent'anni accoglie pazienti malati di Aids. "Oggi di Hiv non si muore più, le persone che entrano qui mantengono la malattia in equilibrio con cure farmacologiche. Entrano alla Pellegrina per trovare una famiglia, dei compagni di viaggio".

La Pellegrina - Casa Don Venturini

Ha spento trenta candeline la Casa di accoglienza “Don Giuseppe Venturini”. Un luogo che i piacentini meglio conoscono come la “Pellegrina”, nata il 29 maggio 1993 per volontà della diocesi di Piacenza-Bobbio per accogliere i malati di Aids. All’epoca, per realizzare il progetto, si attivò una rete di collaboratori: dagli obiettori di coscienza agli operatori della Caritas, dall’Associazione La Ricerca (che oggi annovera la Casa Don Venturini fra i propri servizi) ai medici del reparto malattie infettive dell’ospedale di Piacenza. I primi gestori furono la “figlia di Sant’Anna” suor Paolina Voltini e Daniela Scrollavezza, una delle prime a credere in don Giorgio Bosini nell’immensa idea dell’Associazione La Ricerca (oggi Fondazione Ets), di cui è stata presidente.

Suor Paolina Voltini nel 2009

LA PAURA NON LASCIA SPAZIO ALLA RAGIONE – All’epoca la disinformazione dilagava. Sei anni prima della nascita della Casa Don Venturini, i tabloid inglesi pubblicavano increduli le foto di Lady Diana mentre stringeva la mano, senza guanto, a infermieri, medici e pazienti affetti da Aids al Middlesex Hospital di Londra, nel giorno dell’inaugurazione del reparto dedicato alla malattia che in quel periodo storico mieteva vittime su vittime. La “Pellegrina”, in quel contesto, fu un’opera di immenso valore cristiano, oltre la “paura” che, come disse don Giorgio Bosini, “non faceva ragionare, bensì condannava, emarginava o eludeva il problema”. La paura, si sa, obnubila il cervello, non lascia spazio ai pensieri e all’informazione, della cui mancanza spesso si nutre. Le parole illuminate di don Bosini sono sempreverdi e sempiterne.

La Pellegrina - Casa Don Venturini
La cerimonia di inaugurazione

 

L’INAUGURAZIONE – Piacenza seppe rispondere nel modo migliore a quell’impresa: quel 29 maggio 1993 in tanti parteciparono all’inaugurazione della struttura che si prefiggeva di scacciare da quelle persone lo stigma di emarginati e reinserirle in un contesto sociale. Ma all’epoca di Aids si moriva, e la Casa Don Venturini diventava un luogo per morire con più dignità. Non c’era rimedio. In trent’anni la “Pellegrina” ha seguito i tempi del progresso scientifico, che non si è fatto attendere: prima sono arrivate le terapie antiretrovirali, utili per stabilizzare il male e garantire una qualità della vita accettabile; poi, le cure si sono fatte sempre più efficaci. Oggi è raro morire di Aids, ma l’attività della Casa Don Venturini non si esaurisce. “Oggi – spiega la direttrice Francesca Sali – continuiamo ad accogliere persone con Hiv e Aids ma in un’ottica di multifragilità: sono persone affette da questa malattia che hanno alle spalle storie di disagio psichico o familiare, fragilità legate ad altre patologie, che chiedono di entrare in questo contesto per essere prese in carico al 100%, da un punto di vista non solo sanitario ma familiare. Necessitano di un luogo che le faccia sentire a casa”.

La Pellegrina - Casa Don Venturini
Il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro ospite alla “Pellegrina” (15 marzo 1993)

 

NUMEROSE VISITE NEGLI ANNI – Nel corso degli anni tutti i vescovi della diocesi si sono recati in visita alla Casa Don Venturini. Da Antonio Mazza, che la vide nascere, a Luciano Monari a Gianni Ambrosio fino a Adriano Cevolotto (nelle foto sotto).

La Pellegrina - Casa Don Venturini
La Pellegrina - Casa Don Venturini

 

LA “PELLEGRINA” OGGI – Alla “Pellegrina” si vive normalmente. Non è un ghetto, come sottolinea Francesca Sali e come confermano i residenti nella struttura, ma una “grande famiglia” in cui ci si aiuta vicendevolmente a superare le difficoltà, si discute, si scherza, si gioca, ci si diverte. “È un luogo della città di Piacenza”, dice Francesca Sali, perché è aperto al territorio, nello sforzo di creare una rete di solidarietà per permettere agli ospiti di vivere rapporti sociali e affettivi, di sentirsi parte del tessuto sociale cittadino. Anche i bambini fanno visita alla struttura, giocando e chiacchierando con gli ospiti. O, meglio, con i “padroni di casa”, perché è intorno a loro che gira tutto. Ogni decisione viene presa in modo collegiale, ascoltando il parere di tutti. Ogni modifica viene studiata in base alle esigenze del singolo. La struttura, nata in un periodo in cui l’Aids mieteva continuamente vittime, col tempo ha modificato il suo campo d’azione. L’Aids non è più letale come una volta, e così gli operatori della “Pellegrina” oggi accolgono dieci persone affette da patologie o in condizioni svantaggiose per le quali l’essere sieropositivi non è il principale problema.

Francesca Sali - La Pellegrina - Casa Don Venturini
Francesca Sali

 

“Trent’anni fa – ricorda la responsabile della struttura Francesca Sali – abbiamo aperto per accogliere persone con Hiv o Aids in situazioni sanitarie decisamente gravi perché a quel tempo la malattia non aveva alcun tipo di cura efficace, per cui accompagnavamo molto spesso le persone anche nella fase terminale della vita. Oggi continuiamo ad accogliere persone con Hiv o Aids ma con una multifragilità; per cui, sono persone che hanno questa malattia ma vengono da storie di disagio psichico o familiare, con fragilità legate ad altre patologie come disabilità. Persone che chiedono di entrare in un contesto come il nostro per essere prese in carico al 100%: sia da un punto di vista sanitario, per un accompagnamento, ma soprattutto da un punto di vista familiare. Sono persone che a un certo punto della loro vita necessitano di un luogo che possa farle sentire a casa. Fortunatamente, oggi di Hiv non si muore più, le persone che entrano qui mantengono la malattia in equilibrio con cure farmacologiche. Entrano alla Pellegrina per trovare una famiglia, dei compagni di viaggio, come altri ospiti o volontari”.

“A differenza dei primissimi anni, in cui purtroppo la malattia spesso conduceva alla morte e, dunque, le persone restavano qui per poco tempo – prosegue Sali – oggi le persone tendenzialmente rimangono qui a lungo: questa diventa la casa finale, in cui non c’è un termine per la permanenza. Si sta qui, si condivide la vita come in tutte le famiglie. Per questo motivo, la vita qui dentro ricrea la vita delle nostre case: ci si sveglia, si fa colazione, al mattino magari ci sono attività insieme, visite mediche, ci si rifà le proprie camere – ognuno è responsabile, compatibilmente con le proprie risorse fisiche, di una parte della struttura -, ci sono attività di svago, specialmente d’estate con gite e uscite all’aperto, si pranza insieme. Poi, visto che l’età media non è bassa, dopo pranzo c’è la pennichella e al pomeriggio uscite o attività particolari. D’estate – dice – preferiamo uscire dalla struttura e andare in piscina, a passeggiare in collina e qualche volta al mare. Circa un mese fa abbiamo trascorso una settimana in Riviera Romagnola. Normalmente, abbiamo laboratori di cucina, musicali – da poco, insieme agli ospiti, abbiamo composto la canzone della struttura -. Siccome questo è un luogo in cui le persone restano per tantissimo tempo, cerchiamo sempre di coinvolgere gli ospiti nelle decisioni: anche con molta creatività, in base al momento che si vive e ai desideri che nascono”.

La Pellegrina - Casa Don Venturini

 

“Al di là del fatto che siamo in una struttura e chiaramente ci sono delle regole, la quotidianità è connotata da un’estrema normalità, così come accade nelle case di tutti noi. E, come in tutte le case, ci sono i momenti in cui si sta meglio ma anche momenti in cui si litiga, in cui qualcuno è malato e gli altri si prendono cura di lui. A fianco della quotidianità c’è tutta l’attività che, dalla fine del Covid, stiamo cercando di recuperare, che riguarda la sensibilizzazione, la prevenzione e la promozione. Questo avviene su due binari – spiega Francesca Sali -: il primo, legato più agli eventi aperti al pubblico, come la festa per le famiglie che abbiamo ospitato a giugno, con tanti bambini. L’obiettivo – afferma – è andare a rompere l’idea, purtroppo ancora presente, che questo sia un luogo di sofferenza, di malattia estrema di cui aver paura. Noi invece vogliamo che passi per quello che è realmente, un contesto in cui si respira aria buona. È un’attività che crediamo abbia un impatto molto forte sulle persone, anche perché la Pellegrina è un luogo della città di Piacenza, e quindi è bello che i piacentini possano avvicinarsi in un modo non più caritatevole in un luogo che può essere di accoglienza e festa anche per l’esterno”.

La Pellegrina - Casa Don Venturini

 

“A fianco, l’attività più specifica rivolta alle scuole, ai giovani e alle parrocchie in cui c’è sia l’aspetto della sensibilizzazione, ma anche quello della di prevenzione verso la malattia. È vero che non c’è più l’emergenza Hiv, ma c’è ancora disinformazione su come prevenire l’infezione. E, al contempo, c’è uno stigma che per noi è fondamentale rompere, parlando ai giovani dell’importanza di ‘sapere’ per evitare la discriminazione. Questo aspetto si integra con la quotidianità: quando accogliamo giovani, durante gli eventi, gli ospiti ne fanno parte. Ed essi, a loro volta, escono dalla struttura. Siamo sempre in movimento, non vogliamo che la nostra struttura sia chiusa e ferma”, conclude la responsabile.

Debora Massari - La Pellegrina - Casa Don Venturini
Debora Massari

 

Fra gli operatori c’è Debora Massari, 27 anni, educatrice professionale, che lavora alla Pellegrina da cinque. “Gestiamo la casa tutti insieme – dice – condividendo la giornata con gli ospiti. Non facciamo niente di speciale se non condividere le attività, i momenti, quelli più sereni e quelli più faticosi, cercando di portare gli ospiti verso uno stile di vita sano. Ognuno ha la sua personalità, e questo è il bello del lavorare con le persone. Bisogna scoprirsi un po’ a vicenda e con ognuno trovare l’aggancio giusto per instaurare una relazione. Nella quotidianità si impara a condividere e a convivere: passiamo qui tante ore, e questa è ormai la nostra seconda casa. Gli ospiti si aiutano molto tra di loro nei momenti di difficoltà e spesso sono di supporto anche a noi. Si vogliono bene e si sentono in famiglia, in un clima di collaborazione e affetto”.

LE PAROLE DI CHI VIVE ALLA PELLEGRINA “Ho sopportato il giudizio, il rifiuto e il disprezzo” Alla Pellegrina i ‘fragili’ tornano a vivere – Sono tre storie molto diverse quelle di Paolo Tuzzolino, Max Morini e Donato Totaro. A volerle accomunare, forse basta una parola: fragilità. Di tipo differente, dalla droga alla delinquenza. La “Pellegrina” li accoglie, insieme ad altri sette ospiti, e dona loro una nuova vita, trascorsa in quattro mura che per loro sono “casa”. E lì vivono come si vive in una famiglia, fra litigi, divergenze, scherzi e sostegno reciproco. In trent’anni la casa ha accolto quasi 200 persone ad alto rischio di marginalità, persone che hanno dovuto sopportare il peso del giudizio, del rifiuto, del disprezzo. Come Max Morini, che a 18 anni scoprì di essere sieropositivo dall’esame di idoneità alla donazione del sangue. “Non mi accettavano in nessun posto letto se non nel reparto psichiatrico – racconta – ma poi, due anni fa, una dottoressa di Ferrara (la sua città d’origine, ndr) mi propose di trasferirmi a Piacenza in una struttura”. In quel momento finì il suo incubo, grazie a “persone semplici che si adoperano per non far mancare niente a ogni ospite. All’inizio sembrava che io avessi più bisogno degli altri, perché mi manca un arto, ma poi hanno capito le mie potenzialità al di là del mio problema fisico. Si può vivere anche con una gamba sola”.

Donato Totaro - La Pellegrina - Casa Don Venturini
Donato Totaro

 

Max Morini - La Pellegrina - Casa Don Venturini
Max Morini

 

Quella di Donato Totaro è stata una vita estremamente travagliata. Tre anni e mezzo di galera per “qualche peccatuccio”, come lo definisce lui; uscito il 4 marzo 1994, non aveva una fissa dimora. E allora tornò a Sassuolo dalla sua famiglia. “Mia madre mi disse che con la testa che avevo non avrei combinato niente di buono. Invece, trovai un lavoro e per cinque anni misi la testa a posto. Ma poi sono ricaduto nella perdizione, sono andato avanti e indietro per le varie comunità e infine, grazie agli assistenti sociali, sono arrivato qua”. Alla Pellegrina Donato ha ricominciato a vivere e, da qualche settimana, ha iniziato il suo percorso di inserimento lavorativo nei campi di pertinenza della Casa.

Paolo Tuzzolino - La Pellegrina - Casa Don Venturini
Paolo Tuzzolino
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