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Dipendenze e problemi psichiatrici, grazie a Emmaus la speranza di una nuova vita

La comunità Emmaus, gestita dall'Associazione La Ricerca, accoglie persone con "doppia diagnosi", ossia con dipendenze e problemi psichiatrici. Ecco come funziona la struttura e le storie di due pazienti che stanno provando a ripartire

Comunità Emmaus

Arrivano tutti per lo stesso motivo, ma ognuno è diverso, porta con sé una storia, un vissuto diverso. La complessità degli eventi della vita ha portato ognuno di loro a percorrere la strada sbagliata, pensando che conducesse al benessere. I pazienti che vivono la comunità residenziale Emmaus, fondata e gestita dall’Associazione “La Ricerca”, sono trattati per quello che sono, individui, donne e uomini (non a caso “La Ricerca” fin dalla sua fondazione nel 1980 ha aderito al “Progetto Uomo” del gruppo Ceis), e seguono il percorso terapeutico prescritto loro dall’Azienda unità sanitaria locale per uscire dalle dipendenze e ricostruire la propria vita. Nel 1998 Emmaus nacque a Piacenza, sulla strada Agazzana, accanto alla Casa Don Venturini, come esperienza pilota di accoglienza e cura delle persone con complicanze psichiatriche associate alla dipendenza da sostanze e da alcol (la cosiddetta doppia diagnosi). Persone che ancora oggi, spesso, vengono considerate negativamente, allontanate, forse anche disprezzate da chi pensa che la loro condizione sia così lontana dalla propria da non volervi entrare in contatto. In realtà, solo avvicinandosi a “loro” si può capire quanto sia insensato pensarle come diverse e quanto poco basti per entrare in un tunnel da cui è complicato uscire. Oggi le dipendenze sono aumentate, si curano anche quella da internet (IAD) e la ludopatia. È tendenza solo degli ultimi anni, invece, l’aumento degli adulti con più di quarant’anni a fronte di un calo dei ventenni. Attualmente, fra i tredici residenti, il più giovane ha 28 anni e il più anziano ne ha 65.

Comunità Emmaus

 

COME ARRIVANO I PAZIENTI – “È l’Ausl, tramite il Servizio dipendenze patologiche (Sert) o il Centro di salute mentale (Csm), ad affidarci persone che sono già state prese in carico dai servizi e che hanno accettato la proposta di seguire un percorso terapeutico e riabilitativo”, spiega la responsabile di Emmaus Federica Grillo. L’équipe, dopo aver verificato se il programma attuato in comunità è compatibile con le esigenze della persona, ne valuta l’ammissione. La retta è a carico del sistema sanitario regionale. L’obiettivo del percorso, ci dice Federica Grillo, è “combattere le dipendenze e reinserire le persone nella società”. Già prima di uscire, l’équipe di Emmaus offre ai pazienti l’occasione di svolgere corsi di formazione, tirocini o impieghi lavorativi. “Il primo passo verso il reinserimento è la ‘casetta’ (un edificio che si trova a pochi metri dalla sede della comunità, nda) – spiega Grillo – che può ospitare fino a due persone. Per trasferirsi lì c’è bisogno che prima siano state raggiunte delle autonomie, con la frequenza di un corso di formazione o lo svolgimento di un lavoro o di un tirocinio. E anche quelli che vivono in ‘casetta’ sono tenuti a svolgere il programma settimanale come tutti gli altri e a comunicare i propri spostamenti”.

Federica Grillo Comunità Emmaus
Federica Grillo, responsabile della comunità Emmaus

 

IL PERCORSO – “In media un paziente rimane qui per 18 mesi – spiega Grillo – chi resta di più, di solito, è perché fuori non ha familiari pronti ad accoglierlo o una struttura idonea in cui alloggiare. La prima parte, che dura un mese e mezzo, è quella dell’osservazione, poi c’è il trattamento che si divide in sottofasi in base all’obiettivo personalizzato”. La doppia diagnosi, fatta di psicopatologia e dipendenza, “parte sempre da una predisposizione o da un disturbo latente, poi l’abuso di sostanze aggrava la situazione. Da qualche tempo ospitiamo anche persone che presentano solo il problema psichiatrico”. Man mano che si superano gli step del percorso, ai pazienti viene concesso di uscire, prima insieme a un operatore e poi in autonomia, in contesti tutelati. È l’intera équipe, nella consueta riunione del martedì mattina, a valutare le richieste dei pazienti, appuntate nell’agenda “Bibbia” che Federica Grillo tiene sulla scrivania. Non c’è azione che non sia controllata dagli operatori, che detengono anche gli effetti personali dei pazienti, dai documenti alle chiavi della macchina al denaro, frutto di pensioni o compensi da lavoro.

Comunità Emmaus

 

L’ÉQUIPE – Undici persone formano l’équipe della comunità Emmaus: oltre alla responsabile Federica Grillo ci sono sette operatori, la psicoterapeuta Silvia Pettinari, lo psichiatra Flavio Bonfà e un’infermiera che gira per le comunità de “La Ricerca”, chiamata al bisogno. Gli operatori affiancano i ragazzi 24 ore su 24, “a partire dalle attività più basiche – dice Grillo – come lavarsi o altre azioni che riguardano la cura della persona”. L’operatore, che partecipa a ogni attività svolta nella struttura, è la prima persona a cui i pazienti chiedono aiuto nei momenti di difficoltà. “Condividiamo tutti i momenti – prosegue – quelli belli e quelli brutti. E i pazienti, con le attività che scelgono di fare, scoprono di avere capacità inaspettate. E vogliono farsi conoscere: di recente un gruppo è stato a Roma, in udienza da Papa Francesco, con operatori e volontari. C’è una forte volontà di affrontare le difficoltà vissute in maniera esasperata che si basa sul riconoscimento e sulla consapevolezza del proprio problema”. Le famiglie sono spesso una risorsa per la comunità, laddove queste costituiscano una risorsa svolgono un lavoro parallelo in costante rapporto con la comunità.

Comunità Emmaus

 

DALLA MATTINA ALLA SERA – La giornata è scandita dagli operatori. “Dopo la sveglia e la terapia c’è il momento della responsabilità, che consiste nel rifare il letto, pulire e sistemare la camera. Poi è il turno del gruppo ‘Psi’ o di un’altra attività non strutturata o i colloqui individuali con lo psichiatra, sempre filtrati da un operatore, che vive a stretto contatto col paziente. All’ora di pranzo i pazienti aiutano nell’apparecchiare la tavola, poi sparecchiano e aiutano la cuoca. Al pomeriggio c’è il gruppo ‘Skills’ o attività strutturate come laboratori, gruppi di discussione, uscite (di gruppo o individuali) per esigenze varie che vanno dallo shopping al parrucchiere alle visite mediche. È il momento in cui si assaggia la normalità”. Fra le attività proposte, il laboratorio teatrale tenuto dalla compagnia Manicomics e altre organizzate da volontari come il corso di burraco o il laboratorio di pittura. In passato ci sono stati laboratori di danza e ginnastica. “Possono sempre capitare le giornate ‘no’, i nostri pazienti sono molto sensibili, a volte non se la sentono di stare insieme ad altre persone”.

I GRUPPI – Sono due i gruppi che, una volta a settimana, vengono tenuti dalla psicoterapeuta Silvia Pettinari. “Il gruppo ‘Psi’ – spiega – non è strutturato e si concentra sulle dinamiche relazionali: si condivide la propria storia e ci si confronta, ognuno parla della propria situazione. Il gruppo ‘Skills training’ invece è strutturato: di volta in volta si affronta un macroargomento. Spesso si affronta l’aspetto psicoeducativo, cioè la spiegazione della patologia psichiatrica di cui soffrono, di cosa comporta e dei motivi per cui si sviluppa. Si crea così una consapevolezza del proprio problema”.

Alla fine del percorso si torna nel mondo. Difficilmente si riprende da dove si era lasciato perché intanto quel mondo è cambiato, sono cambiati loro e i loro rapporti con gli altri. Ma quello che è sicuro è che, grazie al prezioso lavoro dell’équipe della comunità Emmaus e alla propria determinazione, si può riprendere a vivere, con una nuova vita che poggia su due punti cardine: una nuova consapevolezza di sé e una dignità che, grazie a chi ha saputo e sa proteggerla e valorizzarla, non si è mai perduta.

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LUCA: “ERO UN AVVOCATO, POI HO COMINCIATO A BERE. PENSAVO CHE I PROBLEMI SI RISOLVESSERO COSÌ” – “Ero un avvocato, poi nel 2017 sono cominciati i problemi in famiglia e al lavoro. Così ho cominciato a bere, pensando che i miei problemi si risolvessero così”. Luca ha 49 anni e ad aprile terminerà il suo percorso nella comunità Emmaus di Piacenza, dopo un anno e mezzo di permanenza. Emmaus, gestita dall’Associazione La Ricerca, è una struttura residenziale per giovani con problemi di dipendenza patologica a cui si aggiungono complicanze di natura psichiatrica. A stretto contatto con chi la comunità la vive, ci si accorge di quanto è poca la distanza fra “noi” e “loro”, quelle persone da cui ancora molti preferiscono stare alla larga. In realtà “loro” siamo noi, con le nostre debolezze e fragilità, raccontate con una lucidità che fa gelare il sangue nelle vene. Il punto di non ritorno Luca l’ha conosciuto due anni dopo l’inizio della dipendenza. “Ho tentato il suicidio – racconta – poi sono entrato in comunità e ci sono rimasto per tre anni e mezzo. Quando sono uscito pensavo che il problema fosse risolto, ma in realtà non stavo bene. Dopo tre mesi sono ricaduto. Da lì è cominciato un nuovo crescendo di alcolismo e ho manifestato di nuovo la mia voglia di morire. Mi hanno ricoverato in pronto soccorso, poi in psichiatria e infine in Rti (Residenza trattamento intensivo, ndr). Mi hanno diagnosticato il disturbo dell’umore di cui soffro da quando avevo 25 anni, il bipolarismo”.

Dopo aver toccato il fondo, Luca, pian piano e non senza difficoltà, ha ricostruito il puzzle della sua vita. “Con un mio compagno di stanza – confida – faccio spesso una riflessione su due concetti chiave del mio percorso: la fatica e la rinascita. Fatica nell’affrontare gli avvenimenti negativi della mia vita, nel comprendere e apprendere il mio disturbo e la mia malattia, nel comprendere di aver distrutto quel poco di vita che mi rimaneva, costruito con tanti sforzi. E la fatica di affrontare la psichiatria. A febbraio 2023, dopo due mesi in Rti, desideravo fermarmi in comunità e non tornare a casa. Così ho incontrato Emmaus ed è cominciato il mio percorso di rinascita”. Col tempo, sono tornate anche quelle relazioni rovinate quando sono iniziati i problemi di alcolismo. “La cosa più importante – dice Luca – è stata il recupero non solo di me stesso, ma soprattutto dei miei rapporti familiari, con la mia compagna e con i miei amici. Mia madre, mio zio e mio fratello mi stanno aiutando molto, pian piano tutto sta ritornando come prima. La mia compagna vive a Padova e riesco a incontrarla solo una volta al mese, ma ci sentiamo spesso al telefono. La comunità fa da intermediario fra me e lei. Lo scorso Natale è venuta a trovarmi e abbiamo passato un bellissimo periodo insieme. Adesso la comunità mi sta aiutando a trovare un lavoro e completare così la rinascita, per tornare in società a vivere”.

Comunità Emmaus

 

SILVIA: “HO CAPITO CHE DEVO FARE QUALCOSA. LO DEVO A MIA FIGLIA E A ME STESSA” – Nell’ultima fase del percorso, dopo aver “superato” tutti gli step, Luca può uscire dalla comunità in autonomia per andare a prendere un caffè o fare una passeggiata. L’équipe di Emmaus, comunque, conosce tutti i suoi spostamenti e controlla che gli ambienti frequentati siano tutelati e non presentino il rischio di entrare in contatto con sostanze di vario tipo. Spesso Luca esce insieme a un operatore per andare a svolgere lavori manuali. “Tutti i sabati vedo mia madre e due volte al mese trascorro una domenica a casa con lei”. Prossimo all’uscita, Luca lancia un appello a tutti coloro che si trovano in una situazione di difficoltà: “Non vergognatevi a chiedere aiuto, affidatevi ai medici, affrontate il problema con umiltà”. “Fra tre mesi uscirò e andrò a stare con mia madre – conclude – spero di trovare un lavoro e di ricominciare una nuova vita, a Dio piacendo”. Se Luca è quasi alla fine del percorso, Silvia (nome di fantasia) è entrata nella comunità Emmaus da meno di un mese. Le difficoltà per Silvia, che oggi ha 48 anni, sono iniziate dopo il lockdown. “Sono andata in depressione a causa di alcuni accadimenti negativi e mi sono rifugiata nell’alcool. Bevevo due bottiglie di vino al giorno, stavo meglio, ero convinta che fosse la cura ai miei mali”.

“Quando ho tentato il suicidio – racconta – nel mio corpo c’era un mix di alcool e farmaci: da settembre 2023 a gennaio 2024 ho continuato a cambiare ospedali in cerca di una cura vera. Quell’esperienza mi ha aperto gli occhi, ho capito che dovevo fare qualcosa. Lo devo a mia figlia e a me stessa. Perciò ho scelto di cominciare il percorso in comunità, anche per evitare ai miei genitori anziani di sopportare il peso della situazione”. Durante il primo mese e mezzo, nel periodo “dell’osservazione”, ai pazienti sono limitati i contatti con l’esterno. Silvia, però, è certa che sua figlia adolescente vive in un luogo sicuro. “Qui sono stata accolta bene sia dagli operatori che dagli altri pazienti – dice -. Ora sto meglio, ho ancora qualche crisi ogni tanto ma rientra nella normalità. Un consiglio a chi si trova in una situazione simile alla mia è di farsi aiutare per continuare a vivere”.

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